FINE GIORNATA

È LA RUBRICA CON LA QUALE IL SEGRETARIO GENERALE DIRPUBBLICA COLLOQUIA PERIODICAMENTE CON I COLLEGHI ED I SIMPATIZZANTI DEL SINDACATO, CHE HANNO RITENUTO DISCRIVERSI ALLA SUA MAILING-LIST PERSONALE, RACCONTANDO E COMMENTANDO FATTI E NOVITÀ RACCOLTI NELLARCO DI UN DETERMINATO PERIODO O,APPUNTO, A ...... “FINE GIORNATA”.

 

 Domenica 24 giugno 2007

San Giovanni Battista

(il precedente è di Sabato 7 aprile 2007)

 

Tanti carissimi auguri a tutti gli iscritti ed ai simpatizzanti della DIRPUBBLICA che portano questo nome, i quali sono tantissimi (ho verificato i tabulati), tanti da non poterli enumerare in questo messaggio. Allo stesso modo, desidero esprimere i miei auguri a tutti gli altri nostri colleghi di nome Giovanni (che non sono né iscritti, né simpatizzanti), anche se non potranno riceverLi (a meno che non ci pensiate Voi, individualmente). Una parte di auguri anche a me (e ne ho bisogno) che mi chiamo Giancarlo; spero, infatti, che qualche santo si prenda cura di me e che (lassù) non sia nato un equivoco a causa del mio nome composto. Vi metto questa icona del Battista, che non vuole essere un “santino”, ma un semplice richiamo ad un personaggio storico che, a mio giudizio, suscita ammirazione, per il suo coraggio. Erode Antipa, re di Galilea (il figlio dell’altro Erode, quello della strage, per intendersi), infatti, lo stimava molto (e anche lo temeva) per il carisma che suscitava con la predicazione, ciò nonostante il fatto che tale re (come, forse, la maggior parte dei re) non fosse abituato alle contestazioni. Tutti gli davano sempre ragione, compresi i saggi del suo tempo ed i “dottori della legge”, accreditati presso la corte. Nessuno osava “dire la verità” o semplicemente ciò che pensava al re, anche se questi violava pubblicamente la Torà. Tutti, ad eccezione di Giovanni che non la smetteva mai di condannare pubblicamente il suo matrimonio con Erodiade, che era illegittimo (secondo la legge del tempo) in quanto la donna era già stata la moglie di suo fratello Filippo e l’unione era stata feconda (ne era nata, infatti, Salomé). La stima non prevalse, però, all’inganno nel quale il re cadde ad opera della stessa Salomé la quale, con una danza assai seducente, ottenne dallo zio-patrigno la testa del profeta, su un piatto d’oro.

NO, a costo della vita, quindi!

 

Quanto meno ci costa a noi dire NO od esprimere un’opinione con fermezza! Quanto è a buon mercato per noi la coerenza e la fermezza: non la vita, non il carcere, non le privazioni, né altro di veramente grave. Cosa mai può capitare, oggi, nelle nostre amministrazioni, se sosteniamo la verità? Non vinciamo un concorso; non veniamo confermati in un incarico dirigenziale; perdiamo il posto da capo-reparto (o capo-team, come si dice oggi); veniamo destinati ad una sede scomoda; vediamo procedere chi è meno preparato di noi e magari perdiamo, una bella fetta di stipendio (non tutto) ……. - Bazzecole, agli occhi di qualsiasi soggetto molto (ma molto) meno grande di Giovanni. Eppure….! Quante volte mi sento dire: “..ho dovuto comportarmi così … non potevo farne a meno…”; oppure “…credimi, stimo molto DIRPUBBLICA per ciò che sta facendo ma, mi sono visto costretto a….”; o ancora “…odio quei sindacati che ci hanno ridotto in queste condizioni ma, dico davvero, ci sono ragioni per le quali debbo mantenere l’iscrizione”. Quali saranno mai queste ragioni superiori? Chissà, molto spesso esse risiedono in qualche nicchia del nostro modo di essere e di pensare, laddove riteniamo importante ciò che non lo è, e consideriamo irrilevante ciò che, invece, è fondamentale. Questa somma di fattori capovolti produce, ad esempio, le invettive di Ichino che non la smette di dire a noi tutti: FANNULLONI!

(Vi riproduco l’articolo in prima pagina di questa mattina, sulla cronaca di Roma del CORRIERE DELLA SERA).

 

Anche DIRPUBBLICA è stata ed è un pochino simile a Giovanni. Ha sempre cercato il bene comune e, quando ha adottato una decisione, non ha mai fatto il conteggio degli iscritti. In tale sindacato si è sempre riflettuto su cosa fosse giusto fare, non su cosa fosse conveniente per l’organizzazione. In altre parole, il pensiero è sempre stato rivolto non al singolo iscritto o ad un consistente gruppo di iscritti, ma alla categoria e alla Costituzione e prima ancora alla Nazione della quale ci siamo sempre sentiti orgogliosi di far parte. Anche DIRPUBBLICA, come Giovanni, ha il suo Erode che paradossalmente è impersonato dalla stessa categoria (per la quale DIRPUBBLICA tanto si affanna) che molto scarsamente la riconosce, sedotta com’è da quelle Salomè sindacali che fanno di tutto (compresi i rinnovi contrattuali) affinché possa confermarsi ai danni del pubblico impiego, l’invettiva di Ichino: FANNULLONI!

 

 

 

Buona notte a tutti.

Vostro, Giancarlo Barra.

 

Vi allego la cronaca di una polemica molto calda sugli incarichi dirigenziali!

 

Alcune notizie in anteprima:

 

La Lettera Aperta sui giornali !

Il documento sulla Vicedirigenza, già consegnato al Ministro Nicolais, sarà pubblicato a pagina intera:

su "Il Giornale" edizione di Roma il 28 giugno;

su "l'Unità" edizione Nazionale il 29 giugno.

Sono state preferite due testate di diverso orientamento politico a simbolizzare la neutralità della categoria dei funzionari, dei dirigenti e della CONFEDIR.

 

DA CORRIERE DELLA SERA - Pubblicato il 24 giugno 2007 -

Montezemolo e i fannulloni - Un codice etico per il sindacato.

 

I vertici delle confederazioni sindacali maggiori si sono molto indignati per la battuta del presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo sul rischio che il sindacato si riduca a «difensore dei fannulloni». Qualche ragione ce l'hanno: al di là della polemica sui fannulloni, non si può imputare a colpa del sindacato il fatto che esso difenda i lavoratori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. In quella battuta c’è però la denuncia di un rischio grave. Un rischio per il sindacato stesso, prima ancora che per l’intera collettività: che il sindacato si riduca a difendere solo i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri di fatto privi di rappresentanza. È questo un rischio che il sindacato in Italia sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Nel settore pubblico, innanzitutto, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell'efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, manifestata genericamente da Cgil, Cisl e Uil nel Memorandum firmato col governo nel gennaio scorso, è vistosamente contraddetta dal loro comportamento effettivo non appena si tratta di passare alle misure concrete. È sotto gli occhi di tutti il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni hanno aperto contro la proposta del ministro Nicolais di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell'impiego pubblico. Ma quello di privilegiare troppo i meno produttivi è un rischio che — sia pure in misura minore — il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa al lavoro impiegatizio, è tipico e in qualche misura inevitabile che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte più debole degli appartenenti a ciascuna categoria. Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura — e questo si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane—che il sindacato entri per la prima volta in una azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi privati. Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto d’interessi; e il sindacato dovrebbe — per il proprio buon nome, prima di tutto—darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno. Più in generale, il sindacato deve curare — con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi—che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell'interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest'ultima si ribella. È già accaduto nel 1980 con la «marcia dei 40.000». Gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.

 

Pietro Ichino